76177
Lorenzo
Marvelli
Lavoro in emergenza, on the
road, tra la gente.
Lavoro in ambulanza, in elicottero... tanta adrenalina,
onnipotenza a volte, esagerata considerazione di sé, tanta vite salvate, tanti
errori, tanta morte.
Gli errori attribuibili al caso, le vite salvate no:
succede sempre così, abbiamo bisogno di stimoli, il contatto con la morte è
frequente, il contatto con la gente incazzata, con la polizia, i carabinieri, le
loro manette, i loro guanti in lattice per picchiare senza insudiciarsi le
mani.
Lavoro duro l’emergenza!
Non amo l’azione e per questo l’ho
scelta.
Ero in psichiatria, prima.
Poi in medicina a ragionare su piccoli
e grandi circoli, il cuore e gli edemi declivi, fegati affaticati, varici
esofagee.
Anche i farmaci occupavano il mio tempo: acidoacetilsalicilico,
ticlopidina, digossina, nitroglicerina, trans-sulfuranti e
trans-metilanti.
Appassionanti eufonie!
Mi piacevano i tempi lunghi, mi
piaceva pensare pacatamente prima che i miei muscoli agissero e poi... gran
parlare: riunioni di staff, lezioni agli allievi, assemblee sindacali,
associazioni di tutela dei diritti del malato.
Tanta politica, tanto
parlare.
Bello, appassionante come i miei libri di teatro, i miei gialli del
mitico Scerbanenco, il blues di B.B. King, la fisarmonica di Piazzolla.
Bel
periodo.
Stipendio non esagerato ma sufficiente per qualche follia mensile
nella Libreria Feltrinelli del mio amico Massimiliano o nel negozio di compact
sotto i portici, vicino alla statua dell’elefante.
Poi la cenetta al sabato
sera, arrosticini e buon vino Montepulciano.
Anche 50.000 la bottiglia... il
rosso abruzzese merita simili sforzi!
Infermiere inserito nel tessuto
sociale, infermiere dai tempi lunghi, infermiere con il debole della psichiatria
e del cuore.
Non per tutta la vita!
Dovevo rompere quella calma malefica,
quel silenzio di emozioni, non so se mi spiego, il corridoio del reparto come
corso Umberto a Pescara, la guardiola come Maxi e il suo pub, vicino a casa
D’Annunzio.
Voglio dire: tutto così banale, ripetitivo, pieno di belle
parole...
"Verosimilmente". Quanto mi piaceva esibirmi in quest’avverbio e
poi: "Passa Consegna" siglato con "P.C." in rosso dai lontani sapori politici;
ed ancora "Alvo, decubito obbligato, stranguria, Giordano positivo..."
Il
silenzio avrebbe risolto i miei problemi, la fuga da quelle parole piene di
senso ma così abominevoli mi avrebbe di sicuro mostrato territori oscuri ed
entusiasmanti della professione.
L’azione, volevo l’azione, il movimento,
volevo dirigere l’energia nei muscoli e quindi assaporarne la fatica, il
lavoro.
Un anno in Africa, in Somalia, in un ospedale fatiscente ma
esplosivo.
In tutti i sensi.
La malaria mi costrinse al rientro ma ormai
ero lanciato verso orizzonti diversi dalla parola, voglio dire, viaggiavo a 200
all’ora: sangue, massaggio cardiaco, defibrillazione, manovre di rianimazione,
collari, tavole spinali, fermacapo, insomma...
Ed eccomi al 118, perdo 10
chili, perdo qualche anno, parlo poco finalmente, corro sulla strada a sirene
spiegate o volo: in elicottero, in autostrada, in montagna, in campagna,
dappertutto.
Lavoro duro l’emergenza!
Questa mattina Pescara è un lago a
causa dell’acquazzone notturno: gran casino, macchine ferme in mezzo alla
strada, pompieri indaffarati, individui che imprecano davanti al negozio
allagato.
L’abusivismo edilizio ha trasformato questa città e chi la
abita
Le colline sono pavimentate in cemento e scaricano a valle fango,
terra, sassi, detriti d’ogni genere.
La gente qui è abituata, quasi
rassegnata e per questo, quando si vota, continua a preferire i signori del
cemento in cambio di qualche promessa..."Tanto sono tutti uguali!"
Corriamo
alzando due colonne d’acqua, io e il mio autista e compagno Chicco.
La
centrale ci ha "passato" un intervento in codice giallo, media gravità,
insufficienza respiratoria insorta improvvisamente.
Si parla di tutto durante
il tragitto... Chicco ha comprato la macchina, una Passat.
E’ contento Chicco
e corre a sirene spiegate sognando la sua berlina grigio metallizzata e piena di
comfort.
Con la coda dell’occhio riesco a catturare l’immagine di un uomo che
impreca dicendoci di tutto: passando così velocemente gli abbiamo spinto nel
negozio un fiume d’acqua.
"Chicco vai più piano, stiamo seminando terrore in
giro... se ci prendono c’ammazzano!"
"Lascia fare, qui sopra comando
io"
Sempre gentile Chicco, sempre spericolato, sempre in sintonia con il
rombo dei motori...
Arriviamo finalmente a destinazione, l’acqua copre ormai
strade e marciapiedi, scendiamo, il tempo di prendere gli zaini con il materiale
e siamo già zuppi come due pulcini.
La paziente ci aspetta distesa a letto, è
notevolmente sofferente, respira male, è preoccupata, risponde alle mie domande
con dei gesti quasi a voler risparmiare l’aria.
Ossigeno, pressione,
pulsossimetro, monitor e vena poi comunico al telefono con il medico di
centrale.
Somministro dei farmaci, strizzo l’occhio a Chicco: è il segnale
che bisogna andar via.
Guardo la signora, le sorrido: "Stia tranquilla, si va
immediatamente in Pronto Soccorso, si fidi di me, tra poco starà senz’altro
meglio".
Nel tentativo di sistemarle la manica della camicia da notte che ho
sollevato per la flebo, vengo incuriosito da una specie di macchia proprio
sull’avambraccio.
Metto a fuoco l’immagine... è un disegno, anzi no, un
tatuaggio, dei numeri tatuati.
Numeri tatuati: 76177.
Guardo Chicco, lui è
preso da altre cose: barella, cinghia, lenzuola.
Sospetto qualcosa, forse
sarebbe meglio far finta di niente, coprire e via come se niente
fosse.
Eppure...
No, sento montare dentro di me una sorta di ossessivo
desiderio di chiedere.
"E questo cos’è?"
Il peso del suo sguardo su di me,
un attimo e mi sento attraversato dalla sua vita, dai suoi ricordi, dalla sua
tragedia.
Una pausa infinita, un silenzio insopportabile rotto
da...
"Aushwitz"
Così e basta, senza aggiungere nulla.
La sua risposta
ha il peso di un iceberg, un enorme pezzo di ghiaccio che mi raffredda
improvvisamente il viso, le braccia, lo stomaco.
Non so cosa fare, vorrei
fuggire via, via da quella casa di tragiche vite vissute, da quelle storie di
scheletri accatastati, di false docce, di gas e di forni crematori, vorrei non
conoscere il significato di quella parola appena pronunciata,
vorrei...
Vorrei chiederle scusa, vorrei piangere e chiederle scusa.
Sì
perché, cosa strana, mi sento responsabile di quello che ha sofferto.
Non so
come dire... avverto il senso di colpa quasi fossi un vecchio aguzzino
tedesco.
Non reggo l’onta, mi vergogno del genere umano al quale
appartengo.
Mi vergogno!
Mi vergogno perché sento il peso di una storia
già dimenticata, di una vicenda che l’umanità ha rimosso tra derive revisioniste
e governatori di Carinzia in giro per l’Europa tra pasticcini e bande
paesane.
Una storia lasciata e affidata alle pagine di una letteratura con
poco mercato o a film in bianco e nero e per nulla commerciali e
commerciabili.
Sento la responsabilità di appartenere ad un umanità poco
umana, un popolo che mastica vicende per digerirle e defecarle nella fogna
dell’oblio.
Guardo la signora 76177 soffrire d’insufficienza respiratoria e
di ricordi, non dico una parola, non trovo una parola da dire:
silenzio.
Chicco annusa qualcosa di strano nell’aria e mi scuote sulla
spalla: "Allora?"
Trasferiamo la signora 76177 dal letto alla barella,
massima attenzione alla flebo, ai fili del monitor, alle cinghie di
sicurezza.
Silenzio.
Fuori la pioggia continua il suo fare incessante, una
breve corsa verso l’ambulanza.
Silenzio.
Chicco alla guida, pronto a
partire, io sistemo le attrezzature, erogo ossigeno, mi accomodo ed accenno un
O.K.
Silenzio.
Rumori lungo il tragitto: la pioggia sui vetri, le ruote
sull’acqua, gli schizzi dalle buche, il tergicristallo davanti, la
sirena.
Silenzio.
La situazione migliora piano piano: il saturimetro
comunica valori d’ossigeno prossimi al 100, avrei voglia di sorridere e
comunicare soddisfazione ma...
Silenzio.
Lavoro duro l’emergenza, lavoro
duro!
Cinque minuti e siamo in Pronto Soccorso.
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