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Ville-Evrard è una cittadina di
provincia, calma e tranquilla.
Appena fuori città, diremmo oggi in periferia,
immersa in una moltitudine di alberi alti e sempreverdi, diremmo oggi in modo da
nascondere ad occhi indiscreti una certa realtà terrificante, operose ed esperte
mani di uomini di epoche lontane costruirono un edificio, diremmo oggi un
palazzaccio, destinato a chierici prima e successivamente ai rampolli delle
buone famiglie della regione che, per un motivo o per un altro, sceglievano per
i loro studi Ville-Evrard piuttosto che Parigi.
Oggi il palazzaccio è stato
destinato ad un popolo di emarginati, uomini, donne e bambini che divenuti,
diciamo così, scomodi alla società civile, è stato qui rinchiuso dalla mano
autoritaria della Legge.
Il palazzaccio di Ville-Evrard è un
manicomio.
Una casa di cura, diremmo oggi.
A Ville-Evrard ricevono asilo
disgraziati di ogni sorta: accanto ai veri e propri pazzi non è difficile
scorgere poveracci affetti da "pericolosissime" devianze sessuali, diremmo oggi omosessuali e con loro una
coloratissima schiera di prostitute, vecchi, orfani ancora minorenni,
delinquenti patentati che persino il carcere ha rifiutato di accogliere
e, perché no, qualche artista eccessivamente eccentrico.
Insomma una
popolazione rumorosa poco incline al doveroso rispetto di quelle norme
comportamentali che costituiscono, diciamolo pure, il fondamento della
convivenza civile.
La civile Francia, luogo di cultura e democrazia.
Il
palazzaccio di Ville-Evrard è ben organizzato e risente della recente ventata
illuministica che ha imperversato da queste parti sino a pochi decenni fa.
Il
pian terreno è riservato ai medici ed al personale ausiliario di primo e di
secondo livello; gli ambienti sono luminosi, spaziosi e puliti.
C’è
anche una biblioteca piena di scaffali con volumi dalla copertina di pelle che
riposano un sonno profondo ma testimoniano una quantità di sapere
incommensurabile; l’odore dolciastro delle pagine ammuffite permea l’aria di una
grave presenza di cultura sicché il pian terreno è un luogo che incute un certo
rispetto e timore come si deve ad ogni centro di potere ove risiedono fatalmente
i destini di queste piccole umanità di disgraziati.
Al secondo piano, come al
terzo, alloggiano i pazienti.
Non è il sesso o l’età o il censo a costituire
il criterio della loro dislocazione ma un complesso regolamento che ha come
obbiettivo quello di raggruppare individui con comportamenti affini.
Al
secondo piano così, albergano i cosiddetti "pacifici", gente rassegnata ed
abituata all’istituzione totale che vive o si lascia vivere con la sola
intenzione di passare inosservata.
Sono fortunati i "pacifici": vengono
chiusi a chiave nelle stanze di degenza solo nelle ore di riposo. Trascorrono il
tempo restante in un ampio salone che qui chiamano "il cinema", ove è possibile
guardare attraverso ampie finestre il verde rassicurante degli alberi che
circondano l’istituto che sembrano ricordare la finitezza della condizione
umana, la sua precarietà, il suo fatale destino.
Diremmo oggi, la sala di
ricreazione e riabilitazione ove gli ospiti vengono stimolati all’incontro con
gli altri.
Alberi... alberi alti e sempreverdi. Alberi e riabilitazione. Al
"cinema".
Il terzo piano è abitato dai cosiddetti "violenti", un’orda
assatanata e pericolosa che, per evidenti ragioni di ordine interno e, diciamo
così, pubblica incolumità, è costretta in anguste stanze sempre chiuse e senza
finestre, arredate dell’indispensabile e cioè un letto, un tavolo, un
raccoglitore d’escrementi ed un puzzo terrificante.
Una speciale commissione
di saggi è deputata a spedire i nuovi ingressi in quest’inferno puzzolente o tra
i più fortunati "tranquilli".
Ordine interno, incolumità degli operatori,
giusta punizione, cura elettrica e contenzione fisica, gestione economica
oculata, diremmo oggi management ed ossessiva attenzione al budget, tutto ciò
costituisce l’architettura filosofica e politica dell’"Isstituto (sic) per la
cura delle affezioni del cervello e della mente".
E sì, una tremenda
svista del distratto scalpellino ha appesantito l’effigie dell’ Istituto di una
esse di troppo.
La scomoda posizione dell’epigrafe, la mancanza di una scala
adatta, un certo atteggiamento in voga tra i dipendenti più o meno riassumibile
con un "domani si vedrà", impediscono a quella esse birichina di abbandonare il
campo.
Alla stanza numero 51 del terzo piano è chiuso da circa quattro anni
un uomo dall’età apparente di 40 anni e dall’aspetto smunto e sofferente che
solo di recente risponde al nome di Antonin Artaud grazie soprattutto alle
ricerche di amici e parenti che dopo mesi di infaticabile interessamento, lo
avevano rintracciato presso il manicomio di Souteville e quindi, da lì,
trasferito a Ville-Evrard con l’aiuto di un certo uomo d’affari molto influente
presso l’autorità politica e sanitaria di questo luogo di Francia.
Il signor
Artaud non aveva effettivamente dato più notizia di sé da quando, nel lontano
1937, aveva lasciato il suo paese alla volta dell’Irlanda e di San Patrizio suo
patrono; disse infatti ad un amico poco prima di imbarcarsi, in una taverna
malfamata del porto che, grazie ad un bastone dai poteri magici che aveva
ricevuto in dono da un certo Renè Thomas, aveva avuto una rivelazione, diciamo
così, una mistica folgorazione: quel bastone nodoso, appartenuto niente meno che
a San Patrizio, avrebbe dovuto essere riconsegnato agli irlandesi legittimi
proprietari.
Quell’ambiente di gente così strano, ubriachi, prostitute e
malfattori, l’alto numero di birre ingurgitate, l’aria satura di fumi
allucinogeni, il rumore assordante delle navi in partenza ed in arrivo, quella
confusione insomma che regna nei porti di tutto il mondo avevano convinto gli
avventori della colorita bettola, della buona fede di Antonin Artaud che, per
questo, venne lasciato andare per la sua strada.
Cosa successe poi, nessuno
ebbe modo di saperlo.
Ulteriori ricerche presso le autorità irlandesi
testimoniavano il suo arresto e quindi il suo rimpatrio con la nave Washington
ove più volte "il signor Artaud diede luogo ad atti inconsulti venendo alle mani
col personale di bordo ed in special modo con una coppia di uomini che a forza
avevano evitato che questo, in preda ad un furore incontrollabile, si buttasse
in mare".
Da allora quel devoto a San Patrizio non proferì più parola alcuna
e cadde in un silenzio profondo, "limitandosi ad effettuare regolarmente i
bisogni fisiologici ed a provvedere al suo personale sostentamento alimentare
non accettando tuttavia alcun approccio terapeutico da parte del personale di
quest’istituto di cura".
Il professor Luis Dihor, supremo
responsabile dell’Istituto di Ville-Evrard, comodamente seduto nel suo studio a
piano terra sfoglia il fascicolo riguardante il signor Artaud per via di una
richiesta di trasferimento presso altro Istituto pervenutagli di recente con in
calce la firma di un gruppo d’artisti di buona fama.
Costoro, adducendo al
durissimo trattamento cui il loro protetto era sottoposto, chiedevano
all’illustre professore di assecondare tale richiesta; in caso contrario
avrebbero gioco forza interessato l’autorità giudiziaria.
Questa autentica
gatta da pelare spingeva il professore ad occuparsi del paziente del terzo
piano, Antonin Artaud.
La sua ambizione poi ad una certa carica politica, non
gli avrebbe certo permesso di dover far fronte ad una seppur minima citazione
presso uffici così importanti.
Il Signor Artaud non si volta verso il
portone di ferro che si apre dopo sei o sette giri di chiave per lasciar entrare
il professor Luis Dihor vestito di un candido camice bianco lungo quasi sino ai
piedi:
"Buongiorno mio caro Antonin..."
"Mi dia del lei, io non la
conosco."
"Ma come è formale, e poi da un ‘artista... andiamo! Comunque,
signor Artaud, mi è giunta voce nonostante gli innumerevoli privilegi che
le sono stati concessi come l’inchiostro, la penna, la carta eccetera eccetera,
nonostante queste manifestazioni di grande magnanimità che il personale le ha
ripetutamente palesato, lei non ha risparmiato quest’Istituto da ferocissime
critiche ed ingiustissime accuse. Questo è un luogo di cura e di sicurezza, come
lei sa, e l’incolumità..."
"Gradirei che lasciasse immediatamente questa
stanza."
"Ma guarda questi artisti! Mi dica, mi dica: anche lei come quel
gruppo di scioperanti rivoluzionari... com’è che si chiamano... i surrealisti,
sì, quelli di quel tale Breton che darebbero fuoco al mondo intero per poi
ritrovarsi con un pugno di mosche in mano! Andiamo Artaud, lei è anche un uomo
di teatro... non è così?"
"Diavolo, non nomini quella parola! Lei è così
penoso, così insignificante, così poco... crudele"
"Crudele?"
"Sì,
crudele. Crudele! Lei non è così crudele da uccidersi, lei fuggirebbe in ogni
modo il contagio della peste"
"Ma lo può ben dire!"
"Professore, com’è
pateticamente attaccato alle parole, alla dittatura delle parole sulla vita, al
loro inutile clamore che riduce ogni complessità. Lei non vede oltre il suo naso
e le manca la crudeltà per immaginare, per morire e tornare libero in altra
vita. Lei è Dio, padrone di quest’inferno, padre dei nostri destini ed è
incapace di uccidere questa "perfetta" teologia. Non ho detto una parola per
diversi anni perché non sopporto la loro tirannia, il loro aborto, la loro
riduzione del pensiero a concetti così finiti. Ho cercato la Parola che è prima
delle parole, vero ed unico linguaggio della vita!"
"Artaud, lei è
pazzo!"
" Pazzo come tutti quelli che la società non ha voluto ascoltare, a
cui ha voluto impedire di pronunciare delle insopportabili verità. Professore,
lei è Dio ed io le dichiaro il mio profondo ateismo, se lo ricordi domattina,
all’ora in cui visiterà, quando tenterà, senza conoscerne il lessico, di
discorrere con questi uomini sui quali, deve riconoscerlo, non avete altro
vantaggio che la forza!"
Quando il professore abbandona furiosamente la stanza, Antonin torna finalmente alle sue cose sapendo che domani, massimo dopodomani, qualcuno verrà a prenderlo per trasferirlo in altro Istituto come vogliono certi suoi amici.
"Tocca prepararsi, mio caro" pensa
Antonin mentre con estrema calma piega la sua ennesima lettera da
imbustare.
"Tocca prepararsi, mio caro" dice Antonin ma... senza parole, con
un leggero movimento delle palpebre ed un sorriso... appena disegnato sul
volto.
Antonin Artaud, genio indiscusso,
regista teatrale, pensatore incallito, viaggiatore ed intellettuale col dono del
silenzio ma soprattutto, dico soprattutto, attore venne trovato morto seduto ai
piedi del suo letto la mattina del 4 Marzo 1948 a Ivry.
Come sempre aveva
detto non sarebbe morto nel letto di un manicomio!
Del professore Luis Dihor
e dell’ "Isstituto per la cura delle affezioni del cervello e della mente" di
Ville-Evrard, nessuno ne ha più sentito parlare.
LORENZO MARVELLI
foto di tano d'amico