L’inferno di
Ville Evrard
La prigione manicomiale di
Antonin Artaud.


Cari amici, vi parlerò di Artaud, grande genio teatrale che trascorse 9 anni della sua vita in manicomio, subendo 51 elettrochoc, rimanendo con 8 denti in bocca ed una vertebra fratturata. La psichiatria violenta, però, non ha avuto ragione di quel genio e per questo, io credo,  è un eroe.

 

Ville-Evrard è una cittadina di provincia, calma e tranquilla.
Appena fuori città, diremmo oggi in periferia, immersa in una moltitudine di alberi alti e sempreverdi, diremmo oggi in modo da nascondere ad occhi indiscreti una certa realtà terrificante, operose ed esperte mani di uomini di epoche lontane costruirono un edificio, diremmo oggi un palazzaccio, destinato a chierici prima e successivamente ai rampolli delle buone famiglie della regione che, per un motivo o per un altro, sceglievano per i loro studi Ville-Evrard piuttosto che Parigi.
Oggi il palazzaccio è stato destinato ad un popolo di emarginati, uomini, donne e bambini che divenuti, diciamo così, scomodi alla società civile, è stato qui rinchiuso dalla mano autoritaria della Legge.
Il palazzaccio di Ville-Evrard è un manicomio.
Una casa di cura, diremmo oggi.
A Ville-Evrard ricevono asilo disgraziati di ogni sorta: accanto ai veri e propri pazzi non è difficile scorgere poveracci affetti da "pericolosissime" devianze sessuali, diremmo oggi omosessuali e con loro una coloratissima schiera di prostitute, vecchi, orfani ancora minorenni, delinquenti patentati che persino il carcere ha rifiutato di accogliere e, perché no, qualche artista eccessivamente eccentrico.
Insomma una popolazione rumorosa poco incline al doveroso rispetto di quelle norme comportamentali che costituiscono, diciamolo pure, il fondamento della  convivenza civile.
La civile Francia, luogo di cultura e democrazia.
Il palazzaccio di Ville-Evrard è ben organizzato e risente della recente ventata illuministica che ha imperversato da queste parti sino a pochi decenni fa.
Il pian terreno è riservato ai medici ed al personale ausiliario di primo e di secondo livello;  gli ambienti sono luminosi, spaziosi e puliti.
C’è anche una biblioteca piena di scaffali con volumi dalla copertina di pelle che riposano un sonno profondo ma testimoniano una quantità di sapere incommensurabile; l’odore dolciastro delle pagine ammuffite permea l’aria di una grave presenza di cultura sicché il pian terreno è un luogo che incute un certo rispetto e timore come si deve ad ogni centro di potere ove risiedono fatalmente i destini di queste piccole umanità di disgraziati.
Al secondo piano, come al terzo, alloggiano i pazienti.
Non è il sesso o l’età o il censo a costituire il criterio della loro dislocazione ma un complesso regolamento che ha come obbiettivo quello di raggruppare individui con comportamenti affini.
Al secondo piano così, albergano i cosiddetti "pacifici", gente rassegnata ed abituata all’istituzione totale che vive o si lascia vivere con la sola intenzione di passare inosservata.
Sono fortunati i "pacifici": vengono chiusi a chiave nelle stanze di degenza solo nelle ore di riposo. Trascorrono il tempo restante in un ampio salone che qui chiamano "il cinema", ove è possibile guardare attraverso ampie finestre il verde rassicurante degli alberi che circondano l’istituto che sembrano ricordare la finitezza della condizione umana, la sua precarietà, il suo fatale destino.
Diremmo oggi, la sala di ricreazione e riabilitazione ove gli ospiti vengono stimolati all’incontro con gli altri.
Alberi... alberi alti e sempreverdi. Alberi e riabilitazione. Al "cinema".
Il terzo piano è abitato dai cosiddetti "violenti", un’orda assatanata e pericolosa che, per evidenti ragioni di ordine interno e, diciamo così, pubblica incolumità, è costretta in anguste stanze sempre chiuse e senza finestre, arredate dell’indispensabile e cioè un letto, un tavolo, un raccoglitore d’escrementi ed un puzzo terrificante.
Una speciale commissione di saggi è deputata a spedire i nuovi ingressi in quest’inferno puzzolente o tra i più fortunati "tranquilli".
Ordine interno, incolumità degli operatori, giusta punizione, cura elettrica e contenzione fisica, gestione economica oculata, diremmo oggi management ed ossessiva attenzione al budget, tutto ciò costituisce l’architettura filosofica e politica dell’"Isstituto (sic) per la cura delle affezioni  del cervello e della mente".
E sì, una tremenda svista del distratto scalpellino ha appesantito l’effigie dell’ Istituto di una esse di troppo.
La scomoda posizione dell’epigrafe, la mancanza di una scala adatta, un certo atteggiamento in voga tra i dipendenti più o meno riassumibile con un "domani si vedrà", impediscono a quella esse birichina di abbandonare il campo.
Alla stanza numero 51 del terzo piano è chiuso da circa quattro anni un uomo dall’età apparente di 40 anni e dall’aspetto smunto e sofferente che solo di recente risponde al nome di Antonin Artaud grazie soprattutto alle ricerche di amici e parenti che dopo mesi di infaticabile interessamento, lo avevano rintracciato presso il manicomio di Souteville e quindi, da lì, trasferito a Ville-Evrard con l’aiuto di un certo uomo d’affari molto influente presso l’autorità politica e sanitaria di questo luogo di Francia.
Il signor Artaud non aveva effettivamente dato più notizia di sé da quando, nel lontano 1937, aveva lasciato il suo paese alla volta dell’Irlanda e di San Patrizio suo patrono; disse infatti ad un amico poco prima di imbarcarsi, in una taverna malfamata del porto che, grazie ad un bastone dai poteri magici che aveva ricevuto in dono da un certo Renè Thomas, aveva avuto una rivelazione, diciamo così, una mistica folgorazione: quel bastone nodoso, appartenuto niente meno che a San Patrizio, avrebbe dovuto essere riconsegnato agli irlandesi legittimi proprietari.
Quell’ambiente di gente così strano, ubriachi, prostitute e malfattori, l’alto numero di birre ingurgitate, l’aria satura di fumi allucinogeni, il rumore assordante delle navi in partenza ed in arrivo, quella confusione insomma che regna nei porti di tutto il mondo avevano convinto gli avventori della colorita bettola, della buona fede di Antonin Artaud che, per questo, venne lasciato andare per la sua strada.
Cosa successe poi, nessuno ebbe modo di saperlo.
Ulteriori ricerche presso le autorità irlandesi testimoniavano il suo arresto e quindi il suo rimpatrio con la nave Washington ove più volte "il signor Artaud diede luogo ad atti inconsulti venendo alle mani col personale di bordo ed in special modo con una coppia di uomini che a forza avevano evitato che questo, in preda ad un furore incontrollabile, si buttasse in mare".
Da allora quel devoto a San Patrizio non proferì più parola alcuna e cadde in un silenzio profondo, "limitandosi ad effettuare regolarmente i bisogni fisiologici ed a provvedere al suo personale sostentamento alimentare non accettando tuttavia alcun approccio terapeutico da parte del personale di quest’istituto di cura".

Il professor Luis Dihor, supremo responsabile dell’Istituto di Ville-Evrard, comodamente seduto nel suo studio a piano terra sfoglia il fascicolo riguardante il signor Artaud per via di una richiesta di trasferimento presso altro Istituto pervenutagli di recente con in calce la firma di un gruppo d’artisti di buona fama.
Costoro, adducendo al durissimo trattamento cui il loro protetto era sottoposto, chiedevano all’illustre professore di assecondare tale richiesta; in caso contrario avrebbero gioco forza interessato l’autorità giudiziaria.
Questa autentica gatta da pelare spingeva il professore ad occuparsi del paziente del terzo piano, Antonin Artaud.
La sua ambizione poi ad una certa carica politica, non gli avrebbe certo permesso di dover far fronte ad una seppur minima citazione presso uffici così importanti.

Il Signor Artaud non si volta verso il portone di ferro che si apre dopo sei o sette giri di chiave per lasciar entrare il professor Luis Dihor vestito di un candido camice bianco lungo quasi sino ai piedi:
"Buongiorno mio caro Antonin..."
"Mi dia del lei, io non la conosco."
"Ma come è formale, e poi da un ‘artista... andiamo! Comunque, signor Artaud, mi  è giunta voce nonostante gli innumerevoli privilegi che le sono stati concessi come l’inchiostro, la penna, la carta eccetera eccetera, nonostante queste manifestazioni di grande magnanimità che il personale le ha ripetutamente palesato, lei non ha risparmiato quest’Istituto da ferocissime critiche ed ingiustissime accuse. Questo è un luogo di cura e di sicurezza, come lei sa, e l’incolumità..."
"Gradirei che lasciasse immediatamente questa stanza."
"Ma guarda questi artisti! Mi dica, mi dica: anche lei come quel gruppo di scioperanti rivoluzionari... com’è che si chiamano... i surrealisti, sì, quelli di quel tale Breton che darebbero fuoco al mondo intero per poi ritrovarsi con un pugno di mosche in mano! Andiamo Artaud, lei è anche un uomo di teatro... non è così?"
"Diavolo, non nomini quella parola! Lei è così penoso, così insignificante, così poco... crudele"
"Crudele?"
"Sì, crudele. Crudele! Lei non è così crudele da uccidersi, lei fuggirebbe in ogni modo il contagio della peste"
"Ma lo può ben dire!"
"Professore, com’è pateticamente attaccato alle parole, alla dittatura delle parole sulla vita, al loro inutile clamore che riduce ogni complessità. Lei non vede oltre il suo naso e le manca la crudeltà per immaginare, per morire e tornare libero in altra vita. Lei è Dio, padrone di quest’inferno, padre dei nostri destini ed è incapace di uccidere questa "perfetta" teologia. Non ho detto una parola per diversi anni perché non sopporto la loro tirannia, il loro aborto, la loro riduzione del pensiero a concetti così finiti. Ho cercato la Parola che è prima delle parole, vero ed unico linguaggio della vita!"
"Artaud, lei è pazzo!"
" Pazzo come tutti quelli che la società non ha voluto ascoltare, a cui ha voluto impedire di pronunciare delle insopportabili verità. Professore, lei è Dio ed io le dichiaro il mio profondo ateismo, se lo ricordi domattina, all’ora in cui visiterà, quando tenterà, senza conoscerne il lessico, di discorrere con questi uomini sui quali, deve riconoscerlo, non avete altro vantaggio che la forza!"

Quando il professore abbandona furiosamente la stanza, Antonin torna finalmente alle sue cose sapendo che domani, massimo dopodomani, qualcuno verrà a prenderlo per trasferirlo in altro Istituto come vogliono certi suoi amici.

"Tocca prepararsi, mio caro" pensa Antonin mentre con estrema calma piega la sua ennesima lettera da imbustare.
"Tocca prepararsi, mio caro" dice Antonin ma... senza parole, con un leggero movimento delle palpebre ed un sorriso... appena disegnato sul volto.
 

Antonin Artaud, genio indiscusso, regista teatrale, pensatore incallito, viaggiatore ed intellettuale col dono del silenzio ma soprattutto, dico soprattutto, attore venne trovato morto seduto ai piedi del suo letto la mattina del 4 Marzo 1948 a Ivry.
Come sempre aveva detto non sarebbe morto nel letto di un manicomio!
Del professore Luis Dihor e dell’ "Isstituto per la cura delle affezioni del cervello e della mente" di Ville-Evrard, nessuno ne ha più sentito parlare.
 

 LORENZO MARVELLI

foto di tano d'amico

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