NON DI SOLO PANE…

di Simona Conca

 

Sono in macchina, con lo stradario aperto sul sedile del passeggero ed in mano l’indirizzo che ho scarabocchiato su di un foglietto di carta: ho trovato la via che cercavo, sulla cartina è segnata come un rettangolo verde con il nome di una cascina, percorrendo tutta la strada infatti mi trovo immersa nella campagna padana, nella sua veste invernale, anacronistica e malinconica. 

La strada non è asfaltata e la macchina slitta sul fango lasciato dai recenti piovaschi; l’aria è ancora gonfia di una pioggia fine, che inzuppa l’anima, più che il fisico.

E’ pomeriggio ma sta imbrunendo, guardo l’orologio con apprensione, se non riesco a trovare la casa velocemente finirò per arrivare in ritardo.

Devo trovare l’indirizzo esatto ma le costruzioni rurali che costeggio formano un dedalo di cortili, orti, case e stalle, senza alcuna indicazione topografica: non un numero civico sui muri in mattoni crudi, non una targhetta con il nome, non un campanello.

Sul foglietto che tengo in mano ho scritto il cognome della signora cui vengo a fare un’iniezione, però mi serve a poco: fin lì la linea telefonica non l’hanno portata per cui non posso chiamarla.

Entro in un cortile delimitato su due lati da case di ringhiera e sul terzo da pollai e conigliere, al centro c’è un pozzo per l’acqua: l’immagine mi riporta immediatamente a momenti lontani nel tempo, vissuti in un cortile affatto diverso. Godo del senso di serenità che provo in quell’istante e, dentro, sorrido.   

Alcune delle finestre, che si affacciano sul cortile come occhi aperti, sono illuminate: in campagna  è già ora di cena. Niente luci azzurrognole delle TV a sbattere contro i vetri, niente tubi catodici; quattro cani, fradici fino al midollo, mi si fanno incontro abbaiando ma fuggono quando scendo dalla macchina, adesso si sente solo il silenzio.

Salgo una scala dai gradini bassi e larghi dove albergano odore di muffa, di urina, di escrementi di animali. Sul ballatoio si affacciano quattro porte di legno uguali, deformate dal tempo e dalle innumerevoli mani di vernice, date senza rimuovere le precedenti.

Ad una porta c’è una targhetta di metallo con un cognome che non è quello che cerco, alle altre nulla, provo a bussare a questa porta: con clangore di catenaccio mi apre una signora che deve essere almeno centenaria, piccola e rugosa, gli occhiali spessi listati a lutto, indossa due golfini e due scialletti sulle spalle; in dialetto mi dice che la signora che cerco abita a fianco, che è ammalata e molto sorda. Mi dice di bussare.

Dopo aver provato senza risultato capisco che devo picchiare i pugni sulla porta. Quando comincio a temere che mi si spaccherà la pelle sulle nocche delle dita, sento una voce che annuncia l’arrivo della vecchina che mi apre: del tutto simile alla vicina di casa, con gli occhi rossi e le guance rubizze per la febbre. Indossa vestiti su vestiti di una lana quasi trasparente che certo non la protegge dal freddo. Mi qualifico urlando e mi dice di entrare, accompagnando le parole con il gesto della mano. Mi precede nella stanza con passo incerto. L’odore che avvertivo sulla scala si fa pregnante, mi prende la gola e mi vergogno della mia voglia di scappare.  Penso di sfuggita al prezioso attimo di pace vissuto nel cortile e subito dissolto.

 

La stanza è povera e c’è freddo, l’umidità entra attraverso i muri e sfiorisce l’intonaco, il pavimento di mattonelle, con tanta cera rossa sopra, porta i segni delle mie scarpacce come fossero ferite aperte. I mobili sono pochi ma m’incantano: di legno massiccio, fatti certo da qualche falegname all’inizio del secolo scorso e comprati per il matrimonio; le sbrecciature e le tarlature sono i segni del tempo trascorso e ne costituiscono un pregio. Per le persone è diverso, penso: i segni del tempo ne usurpano man mano l’essenza, l’anima, e finiamo per far caso solo all’involucro.

Sul tavolo ci sono una tazza di latte ed un pezzo di pane ed accanto, su di un panno bianco, la confezione dell’antibiotico, l’alcool denaturato ed il cotone.

Appoggio la mia borsa ad una sedia e chiedo alla signora come si sente oggi: abbozza un sorriso, forse vuol dire che più di ogni altra malattia duole la solitudine. Mi sento inadeguata: vedo la forza e la fragilità di questa donna, le lotte, vinte o perse non importa, in ogni caso combattute.

Le chiedo di potermi lavare le mani e la vedo smarrirsi: non c’è acqua corrente, mi indica una bacinella sulla credenza, mi porta un pezzo di sapone ed un panno per asciugarmi, con un ché di timoroso.

Mentre mi lavo le mani la guardo più di quanto imponga la buona educazione: la vedo impacciata, si vergogna della propria condizione, credo addirittura che si vergogni di aver chiamato l’infermiera “privata”.

In realtà mi ha contattata il suo medico curante, per richiesta della nipote che, lei mi dice, viene di rado, perché molto impegnata con il lavoro e la famiglia.

La lampadina da trenta candele fa una luce giallastra, i fili elettrici corrono lungo la parete, sopra l’acquaio c’è una specie di quadro svedese dove sono appese pentole di alluminio smaltato con motivi a fiori: con un lampo di ironia mi chiede se mi piace la sua batteria nuova, mi dice che fare pentole è stato il suo ultimo lavoro prima della pensione. La fabbrica non ha risparmiato questa generazione già così provata dalle vicende storiche.

“Deve averne viste tante…” le dico. Mi accorgo che non sono più infastidita dagli odori, che la voglia di scappare ha lasciato il posto al desiderio di parlare; l’ansia del “dover fare” si placa.

Preparo con calma la siringa, intanto lei in piedi, appoggiata al tavolo, abbassa le mutande a scoprire carni magre, candide a differenza del viso e delle braccia e vertebre sporgenti come ruote dentate.

Tossisce di tanto in tanto scuotendosi tutta mentre le faccio l’iniezione e l’aiuto a rivestirsi.

Si siede davanti alla tazza di latte e mi fa sedere vicino a lei, mi chiede quanto mi deve, perché la signora Maria che le faceva le punture quando c’era il bisogno è all’ospedale e il dottore ha detto a sua nipote di chiamare me e lei non è abituata e non sa come regolarsi e…

Mi guarda da sopra gli occhiali e si stropiccia le mani, mentre tra un colpo di tosse e l’altro mi urla queste cose. Vorrei chiederle se la coperta a quadri sul letto l’ha fatta lei, se ha mangiato a sufficienza, se non vorrebbe alzare la stufa… Tanti se, tante domande che però non faccio.

Guardo distrattamente la sveglia sul mobile: sul quadrante un pescatore cerca di far abboccare un pesce che passa ogni minuto, sono qui da un’ora buona.

“Nulla, non mi deve nulla, ci ha già pensato sua nipote”. Le dico questa bugia e non so perché, ma sono contenta perché deve fare altre iniezioni e tornerò domani. “Devo andare”- dico – “ci vediamo domani alla stessa ora, non stia ad accompagnarmi”, esco sul ballatoio ed è buio fuori, accendo il cellulare, chiamo mia nonna in casa di riposo, non possono passarmela, è tardi. ”Assicuratele che ho chiamato e che le voglio bene”. “E’ andata bene”- penso- “oltre ogni attesa”. E me ne vado.

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Pagina creata il 01/06/01