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La Sindrome dell’Isola Felice

IIPP Sandro Malagò - Marco Oggero

Fonte: NEU 3/97

  L’infermiere, pur appartenendo alla stessa classe sociale dell’internato che custodisce, difficilmente lotta per la liberazione del malato. Nella condizione asilare si trova ad identificarsi totalmente nel ruolo di custode e carceriere che gli viene imposto, tanto da non riuscire più a vedere in che cosa consista lo schieramento di classe in una situazione in cui tutto è confuso tra custodia e cura, fra responsabilità giuridica e rischio personale, fra subordinazione al medico come detentore della salute e una malattia di cui l’infermiere -esattamente come il medico- capisce i parametri solo in base ad un comportamento più o meno tollerato dall’organizzazione ospedaliera.”[i]

Con queste parole Franco Basaglia descriveva negli anni settanta la condizione lavorativa degli infermieri negli ospedali psichiatrici. E possiamo serenamente credergli. L’istituzione manicomiale, con le sue regole e la sua organizzazione, perfezionatasi negli anni, avevano scavato un solco apparentemente incolmabile tra custodi e custoditi.

Il manicomio, modernamente concepito, è nato alla fine del ‘700 in Francia. E’ infatti nella Parigi rivoluzionaria che il primo grande psichiatra, Philippe Pinel, inizia a lavorare per l’affermazione della nuova disciplina psichiatrica.

Le istituzioni per la custodia dei folli già esistevano. Erano grandi contenitori in cui vivevano riunite tutte le varie forme di devianza che la società non poteva tollerare in giro per le strade, ma che nemmeno poteva reprimere attraverso le normali disposizioni punitive e carcerarie.

In uno di questi grandi istituti parigini (Bicetre) inizia a lavorare Pinel ed inizia la sua opera cercando proprio di distinguere la popolazione dei folli dalle altre presenti all’interno dell’ospizio.

Inizierà così quella che l’agiografia psichiatrica descrive come la liberazione dalle catene dei folli. La ricerca storica più recente ci ha dimostrato come non si trattò di una vera e propria liberazione, ma questa è un’altra cosa. Sicuramente non si può disconoscere la portata rivoluzionaria dell’opera pineliana.

Uno degli avvenimenti di cui la ricerca storica si è ancora troppo poco occupata è l’incontro tra Pinel e quello che potremmo indicare come il “padre” di tutti gli infermieri psichiatrici: Jean Baptiste Pussin.

Pussin era un ex ricoverato di Bicetre guarito. Ammalatosi di tubercolosi a causa del suo mestiere di conciatore di pelli, Pussin fu internato a Bicetre e dopo la guarigione venne impiegato, come spesso accadeva allora, come infermiere.

Quando Pinel entra a Bicetre, Pussin è già in piena attività e si occupa di folli essendo stato nominato come responsabile del padiglione degli incurabili. Pinel osservò attentamente il suo modo di operare, diventandone un estimatore tanto che lo volle come collaboratore anche nel suo successivo trasferimento alla Salpétrière.

In una lettera al Ministero dell’Interno per sollecitare il trasferimento di Pussin, Pinel lo indica come indispensabile per poter applicare le riforme umanitarie già attuate a Bicetre.

Nel fondamentale testo di Pinel “La manie” sono presenti moltissime citazioni di Pussin e moltissime descrizioni del suo modo di rapportarsi con i ricoverati.[ii]

Pussin diventa quindi il principale collaboratore di Pinel e continuò quest’opera fino al momento della morte.

L’anomalia rappresentata da questo strano ed unico personaggio venne immediatamente sanata: dopo la morte infatti, il suo posto viene preso da Jean Etienne Dominique Esquirol, un medico che successivamente subentrò a Pinel nella direzione della Salpétrière, dopo la morte di quest’ultimo.[iii]

Chiusasi in questo modo la parabola pussiniana non si ritrovano nel corso degli anni figure od episodi di significativa importanza nello sviluppo della cultura infermieristica in psichiatria.

Le istituzioni manicomiali elaborarono via via regolamenti e strumenti sempre più sofisticati e sempre più in grado di garantirsi la cieca aderenza dei custodi ai bisogni dell’istituzione. Un esempio di questo complesso meccanismo ci viene da questa frase del Bonacossa, illustre alienista piemontese: “Sull’uomo morale un solo sguardo, una sola parola, un atto solo potendo esercitare una grande influenza, ogni atto di qualunque persona che si avvicini al mentecatto ha da essere regolato dal medico, acciò nulla mai sia in contraddizione col metodo curativo stabilito [...]; siano pure i superiori a sorvegliarlo, a dargli, ove all’uopo, consigli, ma tutto quanto viene da loro decretato non giunga mai né agli infermi, né ad altra persona addetta al loro servizio, in altra maniera che per mezzo del medico.”[iv]

Questo stato di cose è proseguito fino a non molti anni fa, quando ebbe inizio in tutta Europa il periodo della contestazione antimanicomiale.

La rivoluzione basagliana e le lotte anti-istituzionali

Negli anni sessanta ha inizio anche in Italia, seppur con leggero ritardo rispetto agli Stati Uniti ed al resto dell’Europa, il periodo della contestazione all’istituzione manicomiale.

La figura che spicca fra tutte le altre è ovviamente quella di Franco Basaglia che, iniziando la sua opera come direttore del manicomio di Gorizia, darà vita a quella grande esperienza di costruzione pratica dell’utopia antimanicomiale. Non è qui il caso di sottolineare l’importanza della troppo spesso dimenticata attività di Basaglia; ricordiamo soltanto che probabilmente la grandezza e la compiutezza della sua analisi e del suo operare hanno ben pochi paragoni anche in campo internazionale.

L’esperienza di Gorizia ha dato il via ad un grande periodo di dimostrazioni pratiche dell’inutilità e dell’inumanità del manicomio che hanno fatto si che per il Parlamento italiano fosse inevitabile sancire con la legge 180/78 il definitivo superamento legislativo dell’internamento in ospedale psichiatrico. Anche questo è un fatto che ha avuto ben pochi eguali nel mondo.

In quegli anni si è assistito al propagarsi di esperienze di comunità terapeutiche create all’interno dei manicomi e al progressivo smantellamento delle istituzioni per iniziare la costruzione di servizi extra-ospedalieri di salute mentale, stabilendo così il definitivo superamento del paradigma psichiatrico e la sostituzione con il paradigma della salute mentale.

Quella stagione ha visto tra i protagonisti anche gli infermieri che hanno saputo contribuire all’affermazione di quelle lotte. Se spesso gli infermieri sono andati al traino di avvenimenti più grandi di loro o, addirittura, vi hanno opposto resistenza, altre volte sono stati in grado di associarsi e promuovere un nuovo modo di intendere il rapporto con la follia, rigettando il loro ruolo di custodi.

“ A Gorizia, a Perugia, ad Arezzo, a Ferrara, a Trieste, ecc..., i “pazzi” non erano diversi da quelli delle altre città d’Italia, come spesso si sente dire. Ma c’erano degli operatori - “pazzi” secondo la logica corrente, perché consideravano il loro lavoro come un impegno politico oltre che tecnico- che, una volta rifiutata la delega di carcerieri implicita nel ruolo, si sono assunti il carico di dimostrare concretamente ciò che erano la psichiatria e il manicomio: un sistema di difesa della “società civile” che serviva essenzialmente a definire, codificare, smistare, segregare il disturbo sociale e dove la cura esisteva solo come alibi”.[v]

Il dopo 180 e la restaurazione psichiatrica

Dopo il 1978 il cammino non è stato dei più facili, come purtroppo tutti ben sappiamo. La mancata applicazione della 180 in gran parte del territorio nazionale ha portato ad alcune tragiche conseguenze.

Ancora troppe persone sono tuttora recluse (sarebbe un eufemismo definirle ricoverate) dentro gli ex ospedali psichiatrici. E l’informazione televisiva ci ha fatto vedere diverse volte le condizioni in cui sono costrette a vivere.

Verso quello che viene definito in maniera veramente poco rispettosa “residuo manicomiale” (definizione che noi rifiutiamo categoricamente), c’è un’attenzione a dir poco scarsa e un silenzio colpevole.

Progetti e proposte relativi al definitivo superamento dei manicomi rimasti in piedi se ne vedono ancora troppo pochi.

Oltre a ciò la gran parte dei servizi territoriali “avanzati” esisteva già prima del 1978. Dopo l’emanazione e la mancata applicazione della legge 180/1978 sono state ben poche le variazioni, fatta eccezione per l’apertura dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura ospedalieri.

Alcune zone italiane sono tuttora prive di una qualsivoglia struttura extra-ospedaliera, per non parlare della scarsa credibilità di molti dei servizi territoriali esistenti.

Stiamo al contrario assistendo ad un ritorno del manicomio in forme più subdole, in una sorta di micro-manicomializzazione diffusa. Le politiche per la salute mentale sono ancora troppo spesso volte alla creazione di contenitori da riempire e poco attente all’elaborazione ed applicazione di progetti seri d’intervento.

La debolezza epistemologica della psichiatria

In questo contesto va inserita la debolezza del fondamento epistemologico che fa si che la psichiatria sia ben poco credibile dal punto di vista della sua fondazione scientifica.

“Quello che vediamo, il modo in cui suddividiamo il mondo, è connesso strettamente agli interventi che metteremo in atto. Di fronte alla medesima situazione clinica, persone con formazioni differenti presteranno attenzione a elementi differenti e daranno etichette esplicative diverse a ciò che hanno osservato. [...] non è ne utile ne necessario scegliere quale fra le descrizioni/interpretazioni sia la più corretta; ognuna di queste letture non fa che mettere in evidenza uno dei possibili modi di spiegare un fenomeno complesso all’interno del contesto clinico.”[vi]

Né la psichiatria classica, ne quella “neoclassica” hanno saputo porre rimedio a questo fondamentale difetto congenito. “... la psichiatria non riuscirà (fortunatamente) a seguire la strada della medicina, ma neanche quella. delle scienze dello spirito (psicologia, sociologia, antropologia), che in questi anni ne hanno particolarmente influenzato lo statuto. Essa avrà l’ambiguo destino di porsi continuamente nella zona di confine di questi due campi, partecipando conflittualmente degli strumenti dell’uno e degli strumenti dell’altro.

Questa posizione farà si che il pensare e l’agire psichiatrico non oscillino più tra opposizioni polari, ma si trovino imbrigliati e spezzettati in un gran numero di sistemi teorici e operativi, i quali sono caratterizzati (a causa di una forte coerenza interna) da un elevato grado di certezza, legata agli statuti scientifici di base, che rischia di trasformarli facilmente in grandi sistemi ideologici.

Da questo punto di vista la confusione attuale della psichiatria sembra derivare non tanto da incertezze ed approssimazioni, quanto da teorie e operazioni paradossalmente caratterizzate, per così dire, da iper-certezze, che derivano però da sistemi di per sé realmente inconciliabili”.[vii]

Esistono svariate e spesso incompatibili teorie, patrimonio quasi esclusivo della classe medica, che rendono quantomeno difficile l’inserimento e l’accesso a questo sapere da parte del personale infermieristico e variabilissima la qualità del servizio reso all’utente.

Negli ultimi anni si nota un sorta di ricerca di punti in comune fra i differenti paradigmi; ciò porta verso le due possibili strade del dialogo e/o dell’eccletismo nell’attuazione di nuovi modelli. La seconda è quella che noi definiamo in modo “affettuoso” la strada dei “modelli minestrone”. Modelli di per sé né sempre negativi né sempre positivi, ma che subiscono le influenze del clima culturale, politico ed economico che si vivono nel luogo, e solo in quello, in cui vengono adottate. Al pari del minestrone che modifica i suoi sapori a seconda delle quantità e delle qualità delle verdure, della qualità dell’acqua e soprattutto delle qualità del cuoco. Le ricette, pardon... i modelli, possibili sono infiniti; basta, a seconda dei casi, dosare in modi diversi un po' dei modelli psicodinamici, all’interno di un’ottica fenomenologica, che non trascuri un approccio sistemico globale, sempre pronto ad adottare tecniche di quel sano comportamentismo relazionale eccetera, eccetera eccetera.

Le esperienze avanzate in Italia e il problema della sindrome dell’isola felice

Esistono in Italia moltissime esperienze avanzate di cura non istituzionale della follia. La non omogeneità di queste esperienze è nota crediamo a tutti.

Si è soliti attribuire queste esperienze a particolari, irripetibili ed eccezionali coincidenze proprie di determinate parti del territorio nazionale. In altre parole si considerano queste esperienze come vere e proprie isole felici.

Ora è chiaro che un’isola, per quanto felice, ha ben poche possibilità di venire in contatto con altre condizioni di vita. Sia gli abitanti che gli stranieri tendono a considerare quanto accade nell’isola come un fatto anomalo.

Ora, fuor di metafora, vediamo cosa questo modo di pensare provoca all’interno del nostro piccolo mondo della salute mentale.

Il primo e più immediato risultato è che un enorme patrimonio di esperienze e cultura venga considerato unico, anomalo, non esportabile, ne tantomeno trasmissibile. Situazioni anche geograficamente vicine, vivono realtà completamente diverse e, cosa ancor più tragica, non si parlano neppure.

L’infermieristica psichiatrica fra dubbi e speranze

Tutto questo è particolarmente penalizzante per quel che riguarda il problema dell’assistenza infermieristica. Non esiste una cultura infermieristica della pratica terapeutica nonostante l’enorme know-how accumulato in anni di esperienze. Esperienze che se non sono andate irrimediabilmente perdute, rischiano di esserlo tra non molto. C’è a questo proposito un ulteriore nodo problematico relativo alla scarsa attenzione che gli infermieri hanno sempre riposto verso la necessità di tener documentato ciò che veniva da loro fatto e perché; di una sintesi teorica di tutto quel bagaglio esperienziale altro non ne è rimasto se non qualche traccia nella memoria dei singoli[viii].

La moderna infermieristica inoltre vive anch’essa una situazione simile a quella evidenziata sopra della psichiatria: diverse teorie con diversi e a volte inconciliabili modelli di riferimento e visioni dell’uomo: difficoltà a riconoscere quindi un statuto epistemologico comune; inoltre la naturale difficoltà a collocarsi rispetto alle scienze naturali piuttosto che alle scienze umane.

L’infermiere di psichiatria si trova un altro significativo scoglio da affrontare. Egli infatti, dopo, come abbiamo visto, aver giocato un ruolo di traino all’interno del movimento anti-istituzionale, non è riuscito a dotarsi di una adeguata cultura territoriale. Anzi, come preferiamo dire, non si è dotato di una cultura di comunità o comunitaria, intendendo con ciò quello che in inglese viene chiamato comunity care, che sta a definire la cura prestata nella comunità sociale allargata e non intesa nel senso riduttivo che se ne da in Italia di comunità terapeutica.

Il nostra gruppo, che si è dato il compito di ragionare in merito alla “Operatività e ruolo dell’infermiere in psichiatria”, sta tentando di superare queste difficoltà, riunendo operatori provenenti da aree geografiche differenti, con esperienze, culture, formazioni diverse, uniti dal comune punto di partenza (la prassi) e decisi a compiere insieme un piccolo tratto di strada.

Ci siamo costituiti come gruppo alla fine del 92; operativamente siamo partiti dal confronto fra le singole realtà operative per poi andare a ricercare, all’interno delle varie teorie del Nursing quelli che potevano essere, stante la realtà della psichiatria italiana, i punti qualificanti di queste. Da ciò, parallelamente, è scaturita l’esigenza di sondare in modo il più esteso possibile le diverse realtà psichiatriche in cui si viene a svolgere la professione infermieristica. Per far ciò lo strumento privilegiato è stato quello dell’indagine statistica. Attualmente siamo nella fase di avere parzialmente completato l’indagine di sfondo.

Il primo pezzo del lavoro è consistito quindi nel rendersi conto che la prassi che portiamo avanti tutti i giorni ha un suo ben preciso fondamento ed una dignità non inferiore ad altre più decantate teorie.

Si tratta di portare avanti un percorso prassi-teoria-prassi che ci consenta di uscire dalla subalternità in cui ci troviamo.

Vogliamo anche sottolineare che non si tratta di uniformare ed omologare pratiche e culture diverse. Si tratta di rompere il mito dell’incomunicabilità e far si che le diversità si possano confrontare, ognuna con il suo fondamento e la sua dignità.[S&A1] 

Note



[i]  F. Basaglia, “Segregazione e controllo sociale”, intervento al convegno “Salute in fabbrica”, Firenze 1973, ora in “Scritti: 1953-1966. dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia”, Einaudi, Torino, 1981, pp. XLII-XLDIII.

[ii] P. Pinel, “Traité medico-philosophique sur l’alienation mentale ou la manie”, Parigi, 1801, trad. italiana “La mania. Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale”, Marsilio, Venezia, 1987.

[iii] Per chi volesse approfondire la figura di Jean Baptiste Pussin (1746-1811) consigliamo:

S. Malvarez-O.R. Ferro, “Infermiere Pussin: riflessioni su un silenzio della storia delle idee psichiatriche”, in A. De Bernardi-R. Mezana-B. Norcio, a cura di, “Salute Mentale. Pragmatica e complessità”, Centro studi e ricerche regionale per la salute mentale Regione Autonoma Friuli-Venezia -Giulia, Trieste, 1992, vol.1, pp.175-199.

D. Weiner, “The learning of Philippe Pinel a new document”, American Journal of Psychiatry, 1979.

[iv] Bonacossa Giovanni Stefano, “Sullo stato de’ mentacatti e degli ospedali per i medesimi in vari paesi dell’Europa”, Tip. Favale, Torino, pp.117-119.

[v] F. Ongaro Basaglia, “Sull’applicazione della nuova legge”, in “Autobiografia di un movimento, 1961-1979”, a cura di f: Basaglia e P. Tranchina, Amministrazione provinciale di Arezzo, 1979, p. 440.

[vi] U. Telfener, “Epistemologia e clinica, un rapporto inevitabile”, in “Epistemologia in psicologia clinica”, a cura di G.P. Lombardo e M. Malagoli Togliatti, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1995.

[vii] A. Gaston, “La psiche ferita”, Lalli Editore, Poggibonsi, 1988, pp. 7-8

[viii] Si veda a questo proposito:

P. Lusoli S. Malagò, “Modalità comunicative all’interno di un Servizio; nodi problematici e sbocchi possibili”, relazione contenuta negli atti del Seminario dell’A.N.I.N. “Strumenti di informazione e comunicazione nell’assistenza psichiatrica”, Palmanova (UD) 08-04-95.


 

 [S&A1]”... la psichiatria non riuscirà (fortunatamente) a seguire la strada della medicina, ma neanche quella delle scienze dello spirito (psicologia, sociologia, antropologia), che in questi anni ne hanno particolarmente influenzato lo statuto. Essa avrà l’ambiguo destino di porsi continuamente nella zona di confine di questi due campi, partecipando conflittualmente degli strumenti dell’uno e degli strumenti dell’altro.

Questa posizione farà si che il pensare e l’agire psichiatrico non oscillino più tra opposizioni polari, ma si trovino imbrigliati e spezzettati in un gran numero di sistemi teorici e operativi, i quali sono caratterizzati (a causa di una forte coerenza interna) da un elevato grado di certezza, legata agli statuti scientifici di base, che rischia di trasformarli facilmente in grandi sistemi ideologici.

Da questo punto di vista la confusione attuale della psichiatria sembra derivare non tanto da incertezze ed approssimazioni, quanto da teorie e operazioni paradossalmente caratterizzate, per così dire, da iper-certezze, che derivano però da sistemi di per se realmente inconciliabili

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