La Fantasia al Potere. Oppure la Creatività....è ancora Lorenzo Marvelli, eretico ad honorem, ad illuminarci di fantasia assistenziale descrivendo la sua esperienza di Laboratorio Teatrale con persone tossicodipendenti. Ecco un modo di fare riabilitazione in una Italia dove ormai troppa gente si vanta di essere agli apici della terapia riabilitativa. |
Theater against brown sugar
(Il teatro contro l'eroina)
IP Lorenzo Marvelli
La comunità di recupero per
tossicodipendenti Arcadia di Catignano (PE), ha organizzato nel suo interno sin
dalla costituzione, un laboratorio teatrale.
Nel 1992, con un gruppo di
amici, due infermieri di psichiatria, un operatore di comunità, alcuni
insegnanti, una psicologa, presi la decisione di dar vita ad un luogo che avesse
come obbiettivo il recupero di individui ridotti ad una esistenza ai margini con
strumenti che non fossero i soliti e cioè la proposta di un percorso religioso
con la relativa definizione di ciò che è bene e ciò che è male o ancora la
somministrazione forzata di una volontà suprema, magari predicata da una figura
carismatica e "muccioliana", una specie di religione laica ove alla proposta di
comportamento si sostituiscono l’obbligo o il divieto ad agire.
Evidentemente l’esperienza professionale in psichiatria ci spingeva a
rigettare la violenza come modalità terapeutica nelle sue diverse forme e, allo
stesso tempo, ci indirizzava verso luoghi ove guarire è volontaria
emancipazione, lotta sofferta ed individuale, crescita autonoma, rivoluzione
personale.
Ecco allora la scelta di modalità d’approccio e di percorso con
gli individui tossicodipendenti tutt’altro che violente e frustranti ma aventi
come fine una crescita autodeterminata.
Da ormai più di dieci anni sono
state introdotte in Italia delle attività artistiche come metodi alternativi di
terapia ed in queste la drammatizzazione svolge un ruolo primario nella sfera
delle procedure socio-riabilitative.
Ricordo ancora le interminabili
discussioni al fine di costruire una sorta di sistema drammato-pedagocico che
giustificasse, come dire, in modo scientifico l’uso dell’arte a scopo
terapeutico.
D’altro canto, aspre erano le nostre critiche nei confronti di
quelle esperienze con le quali bene o male ognuno di noi era venuto a contatto e
che, sotto il tetto accogliente dell’attività teatrale, annoveravano
eventi-spettacolo discutibili se non penosi.
Quello che ci interessava,
oltre ogni logica di rappresentazione come semplice racconto di vita atto a
commuovere lo spettatore e così ri-consegnarlo redento alla società, era
convincerci del fatto che l’arte teatrale è un "mezzo di autorealizzazione e
manifestazione di vissuti soggettivi e collettivi" e, per questo, "le persone
con capacità artistiche di questi gruppi sono degli artisti e dei creatori di
cultura a tutti gli effetti".
La disabilità così non è elemento ostativo
alla realizzazione artistica ma anzi, la "diversità" come punto di partenza, fa
delle persone un gruppo subculturale con potenzialità notevoli ed è per questo
che alla parola teatro oggi è preferibile sostituire il suo corrispettivo
plurale: teatri.
Il passaggio dal momento teorico a quello pratico ci
sembrava il problema maggiore anche perché ci accorgemmo che tutto quel gran
parlare non aveva partorito nessuna teoria degna di essere postulata e raccolta
per iscritto sul progetto da inviare alle Istituzioni preposte all’erogazione
delle autorizzazioni necessarie.
Decidemmo di partire ugualmente, decidemmo
di fare piuttosto che scrivere, ci assumemmo la responsabilità del rischi, ci
preparammo ad effettuare il salto, ci sentimmo pazzi a tal punto da provare a
volare.
Ricordo il primo laboratorio teatrale, i volti tutt’altro che
presenti degli ospiti della comunità ancora prigionieri delle ultime scintille
d’astinenza dall’eroina, ricordo la mia iniziale incapacità a conquistare
l’attenzione; non avrei potuto parlare di Barba, Grotowski, Brecht o del teatro
No Giapponese eppure era tutto quell’ardore che avevo dentro che volevo
comunicare, condividere.
Volevo scommettere insieme a loro, creare insieme a
loro, non ero lì per aiutarli del solito aiuto, ero lì per fare teatro!
Confesso che i primi incontri furono occasione di gioco più che di lavoro ma
oggi dico che tutti noi ci stavamo preparando per il viaggio ed era giusto che
ognuno lo facesse a suo modo.
Presto quella sala spoglia di mobili che ci
ospitava, divenne lo "spazio per il teatro", il Mercoledì ed il Venerdì "i
giorni per il teatro", i quaderni, le penne, i libri, il registratore, "le cose
per il teatro": un mondo stava nascendo a nostra insaputa e nei luoghi deputati
cominciavamo a muoverci con piacere e dedizione, sacrificio ed entusiasmo.
Dedicammo il primo periodo della nostra avventura al lavoro sul corpo: si
aveva bisogno di tornare a prendere coscienza delle proprie ossa, dei propri
muscoli, delle proprie mani. Bisognava "sentirsi" in uno spazio, nella spazio,
bisognava scoprirsi come soggetti in quiete o in movimento, in equilibrio
precario su un piede o sulle mani ed in definitiva spendere la propria energia,
il proprio desiderio d’agire, il proprio desiderio di essere attori.
I
corpi, da troppo tempo anestetizzati dalla droga, presto tornarono a patire la
fatica del lavoro fisico, a gioire per il massaggio ricevuto, a contorcersi per
non precipitare, a raccogliersi per riscaldarsi..
Con il trascorrere dei
giorni fu naturale passare dall’autorealizzazione dell’attore, performance
egoista, ad un discorso che coinvolgesse l’intero gruppo, un esercizio
volto alla realizzazione di un progetto che avesse come fine ultimo la capacità
di offrirsi attraverso uno spettacolo: la fatica nella costruzione di un
personaggio che legasse sé stesso ad una storia, ad altri personaggi, ad una
scenografia, ad un teatro, ad un pubblico o anche la stipula di un contratto con
il Teatro e le sue componenti, l’impegno a mettersi in gioco insieme a tutti,
l’assunzione di una responsabilità di gruppo.
Mauro organizzò un testo
raccogliendo il materiale che il gruppo partoriva durante il laboratorio:
notizie di stampa, esperienze personali, storie inventate.
Il tema della
peste in Europa nel 1300, la saggezza dell’eremita, il potere dei mezzi
d’informazione, la prevenzione e la conoscenza nella lotta al male, l’ignoranza
e la paura, la morte come presenza terrificante, tutto questo costituì
l’architettura del primo lavoro dal titolo "Il bottino dell paura".
Successivamente mettemmo in scena una lavoro con personaggi tratti dal
repertorio favolistico; ponemmo come obbiettivo il raggiungimento di nessuna
morale, lavorammo solo sulla fantasia come esercizio puro della mente e del
corpo, un viaggio senza approdi significanti, una strada sulla quale camminare
solo per il gusto di farlo.
Seguirono altre messe in scena, il laboratorio
continua il suo lavoro, il gruppo, pur mutato nei suoi elementi, vive
l’esperienza teatrale.
Alcuni ragazzi hanno risolto il loro problema, altri
sono tornati al loro problema, altri ancora continuano a chiedersi cosa fare del
loro problema: il teatro non è una soluzione assoluta, il teatro è una
opportunità, una possibilità come tante altre, una specie di terapia del dolore,
un pezzo di vita ove il sacrificio è arma contro la rassegnazione,
l’emarginazione, la solitudine, la tristezza, la morte.
Nessuno degli attori
ha scelto il teatro come professione, nessun attore continua a frequentare
laboratori nel tempo libero, forse pochi di loro vanno a teatro piuttosto che al
cinema o a mangiare la pizza.
Il teatro li ha lasciati per sempre come un
buon padre con il figlio alla maggiore età.
Eppure continuo a chiamarli
attori, a ricordarli come ragazzi di teatro.