IL VALORE DELLA PROFESSIONE, LA PROFESSIONE DEI VALORI
La tensione alla solidarietà ci appartiene antropologicamente e
storicamente in quanto donne e uomini e culturalmente in quanto infermiere ed
infermieri. Questo è un dato di fatto, e una premessa oggettiva non solo
formale. Tuttavia credo sia importante parlarne oggi più che mai, riflettendo
sul nesso esistente tra la trasformazione del Sistema e la trasformazione della
società, trasformazioni che si danno rispetto ad una crisi globale della
Istituzione. Non è mia intenzione entrare nello specifico di queste crisi,
piuttosto credo sia importante capire quali sono i bisogni dell'umanità
tutt'intera.
Parlare di solidarietà tra
colleghi o con le persone che assistiamo sembra banale. Riflettiamoci
profondamente: sebbene, come già detto, la tensione alla solidarietà ci
appartiene, è altrettanto vero che i disvalori la mettono in crisi quotidianamente. Essere
solidali significa non alimentare l'individualismo, l'egoismo, le
prevaricazioni, i privilegi, la smania di potere.Non è raro che gli infermieri
si dividano e si prevarichino, non è raro che cerchino di difendere i loro
piccoli privilegi personali. Rispetto alle persone esistono pensieri quali "II
malato di AIDS se l'è
cercata, il tossicodipendente pure, il
povero pazzo è solo un
povero pazzo", senza sentirsi minimamente parte in causa degli eventi
sociali che hanno causato la pazzia, la
tossicodipendenza,
la diffusione dell'AIDS. Non mettersi in discussione su queste
dinamiche significa esattamente creare emarginazione. E l'unica risposta che noi
dobbiamo dare a chi lavora per dividere, scindere ed emarginare è una sola:
solidarietà. Dobbiamo lavorare per recuperarla, per rivitalizzare queste energie
intime che ci appartengono e che i disvalori quotidiani non possono del tutto
svilire poiché la solidarietà è parte del nostro codice
genetico. Dobbiamo cioè rispondere ai sistemi di frammentazione che
annientano la solidarietà esattamente perché frantumano il senso di
appartenenza, con azioni di solidarietà quotidiana tra infermiere ed infermiere
e quindi tra infermieri e cittadini a che si sviluppino azioni più complessive
volte a stimolare i
processi di autocoscienza della professione: chi siamo, da dove veniamo,
dove vogliamo andare. Prendere coscienza che siamo una categoria che
professionale che può fare della solidarietà una grande arma anche
terapeutica al servizio degli utenti è, in ultima analisi, una delle nuove
prospettive che si possono aprire nella prossima fase. Ma per essere solidali
con i cittadini e con gli utenti dobbiamo fare in modo che la solidarietà torni
a vivere tra gli infermieri, nella nostra quotidianità lavorativa e non
solo.
La categoria infermieristica
può e deve farsi portavoce di questa battaglia per la solidarietà. E credo che
ci possa riuscire se saprà porsi in atteggiamento critico, costruttivo e
cosciente rispetto a tre punti focali:
• La professione
infermieristica è, da un punto di vista antropologico, femminile.
• La professione
infermieristica è socialità.
• La professione
infermieristica è alleata
all'umanità e si proietta nel mondo.
La professione
infermieristica è femminile
Questo è il nodo centrale
che mette in discussione tutta la nostra storia. Convenzionalmente la storia
inizia con i primi documenti scritti, circa 5000 anni fa, in
Egitto ed in Mesopotamia. Tuttavia
l'invenzione della scrittura si colloca in una fase già avanzata dello sviluppo
sociale ed essa marca un punto di passaggio, critico secondo molti studiosi, di
un processo di sviluppo avviato assai prima. Si pensi soltanto che il
processo di ominazione (ossia di differenziazione dalle scimmie) è cominciato
circa 5 milioni di anni fa, che l'homo sapiens sapiens è comparso circa 100 mila
anni fa e 40 mila anni fa in Europa. Pertanto la convenzione di
considerare storia solo gli ultimi 5000 anni è un errore
terribile, è una bugia sull'origine della nostra
specie.
Il legame materno (madre
fìglio/a) è da
sempre la prima forma di solidarietà. Nulla è
altrettanto vero: la spinta alla solidarietà nasce dal genere (quello femminile
evidentemente) che per primo conosce e sperimenta un legame forte con l'altro
(il figlio, la figlia) e per questo tende a rifuggire comportamenti quali la
competizione e l'individualismo. Anche Florance Nightingel sosteneva che
qualunque donna è, di fatto, o potenzialmente responsabile di qualcuno, i figli,
e che quindi sarebbe diventata un'infermiera. Pertanto, fino alla
nascita del Patriarcato (5000 anni fa appunto) la società umana era matrista. Le Madri, ossia le donne adulte, furono il
genere che per primo procurarono cibo sicuro perché hanno inventato
l'agricoltura mentre l'uomo andava a caccia. Le Madri furono coloro che dalle
erbe inventarono le medicine. Le Madri furono coloro che misero al mondo i
figli, li educarono e li crebbero. Nel frattempo gli uomini continuavano ad
andare a caccia. L'origine della società umana è dunque caratterizzata
da Clan Matristi fatti di fratellanza e
sorellanza e di cooperazione tra uguali. Le artefici di tutto ciò sono state le
femmine, capaci di diventare donne grazie al potenziale o effettivo pregio
sociale d'essere madri.
Questa era allora una realtà
talmente connaturata che non c'era bisogno di violenze o
guerre perché fossero le donne a
governare i processi d'umanizzazione e così è stato per almeno 90000 anni. È
certo, infatti, che fino a 10000 anni fa non siano esistite guerre altrimenti ne
sarebbero rimasti i segni. Le guerre esistono perché qualcuno vuole ottenere il
Potere con la forza ma ciò, evidentemente, non
era necessario in una società matrista gestita da donne nella quale ai bisogni
di tutti si con eguale brillantezza.
Per questi motivi moltissime
studiose ritengono che il genere femminile sia superiore non
solo biologicamente o sessualmente ma anche socialmente. Devo però differire
con Martha Rogers nella sua analisi della preistoria non nella descrizione dei
fatti, peraltro condìvisibile appieno, quanto nel suo non restituire
correttamente la centralità del Clan matrista. Raramente cita le donne come
motore della preistoria specie quando sostiene che siano stati gli uomini ad
inventare l'agricoltura oppure quando sostiene che le donne dovevano ammazzare i
loro figli durante lo spostamento del popolo nomade. Gli ultimi studi negano
queste teorie.
In ultima analisi credo
quindi che la ricerca della solidarietà debba necessariamente passare attraverso
le infermiere intese come donne a
che formino tutta la categoria (donne e uomini) ad una solidarietà più vera e
complessiva.
La
Professione Infermieristica è socialità
Non posso non partire da
dove sono rimasto. La socialità (e quindi, per continum la solidarietà) è una
caratteristica vera per tutta la specie umana, nel senso che vi è una tensione a
socializzare che distingue la nostra da tutte le altre specie esistenti.
Tuttavia, nella nostra specie, la solidarietà è maggiormente connaturata
nel genere che dalle origini ha condotto la civilizzazione della società, cioè
il genere femminile. E questo è vero non tanto perché lo sostengo io: è
oggettivo, è antropologico, è storico.
Tuttavia è necessaria una
precisazione: questi fatti antropologicamente veri non implicano meccanicamente
nulla, però costituiscono le premesse oggettive sulle quali possono nascere i
valori quali la solidarietà, valori da riscoprire e da
rivalutare.
È chiaro che queste premesse
oggettive, perché diventino trasformazione, necessitano di processi di
autocoscienza alti nella professione e, più complessivamente,
nell'umanità.
Filzpatrick e Rogers
sostenevano che "l'uomo è un tutto unificato...e manifesta
caratteristiche che sono più della
somma delle sue parti e differenti dalla somma delle stesse". La
socialità che la categoria infermieristica deve sostenere per fornire delle
risposte concrete ai bisogni è altra cosa dalla socialità che ci viene spesso
propinata. Dobbiamo imparare a praticare rapporti sociali disinteressati,
finalizzati quindi non unicamente al nostro piacere o al soddisfacimento
personale bensì al benessere della collettività e al soddisfacimento dei bisogni
della stessa. In questo esiste il nesso tra socialità e solidarietà:
l'egoismo e l'individualismo alimentano la spinta alla frammentazione e
sviliscono la tensione alla solidarietà, la solitudine diventa la norma,
"l'arroccamento... diventa minimalismo, nichilismo" (B.
Spampinato)Tuttavia, in un panorama oggettivamente sconfortante, dove spazio e
tempo sono scanditi dai ritmi del lavoro, dove la comunicazione diventa sempre
più succube delle vie telematiche, esiste un panorama soggettivo premessa alla
Nuova Socializzazione: la gente continua a
parlarsi, la gente continua ad amarsi, la gente non smette di scambiarsi
ricchezze. È evidente che chi si oppone a questa forma di socialità darà il
peggio di se per fermarla e sappiamo bene che c'è anche chi si oppone
all'interno della nostra professione e magari dietro ad un'apparenza costruita
cela arrivismo ed egocentrismo, smania di Potere. Il Potere
c'insegue: è bene rendersene conto alla svelta, perché il Potere ha
bisogno di conquistarci e di intimorirci, intelligente com'è, per perpetrare il
suo dominio.
Dobbiamo però essere in
grado di confrontarci con tutti se è una vera socialità quella che vogliamo.
Dobbiamo sapere costruire i rapporti, cosa assai diffìcile perché, sia detto per
inciso, per fortuna non siamo tutti uguali, ciascuno di noi porta dentro di se
un patrimonio irripetuto ed irripetibile da altri. La differenza genera
tensione, conflitto, il lavoro d'equipe può subirne dei traumi. Dobbiamo
imparare a metterci in gioco, dobbiamo imparare a parlare all'equipe non
solo della solitudine degli altri ma anche della nostra, non solo dei
bisogni degli altri ma anche dei nostri. I confronti su questi temi sono caldi e
diffìcili ma vivi, pulsanti. Anche la Nightingale riteneva che "quando i
valori professionali od individuali sono in conflitto e sfidano la società
esiste la possibilità di creare dei cambiamenti nella società
stessa".
È bene non dimenticarsi che
la nostra professione è volta al soddisfacimento dei bisogni degli altri, ma che
tra gli altri ci siamo anche noi. E' bene non dimenticarsi di Peplau e di quando
sostiene che "il tipo di persona che l'infermiere diventa ha grande importanza
nel determinare ciò che ogni persona apprenderà mentre riceve l'assistenza
infermieristica" e di Wiedenbach quando sostiene che "lo scopo del Nursing viene
raggiunto mediante la costruzione di una relazione tra persone." Relazione,
socialità, solidarietà.
La professione
infermierìstica
è alleata dell'umanità e si proietta nel mondo
Quando mi si chiede perché
ho scelto di fare l'infermiere rispondo sempre che iniziai a sceglierlo un
giorno e che da allora ho continuato e continuo a sceglierlo ogni giorno della
mia vita.
Essere infermieri, intendendo la
professione in senso complessivo, significa scegliere di far parte e di portare
avanti una cultura che va al di là della pratica quotidiana, delle 8 ore, dello
stipendio, delle ferie. Significa incarnare quello che è la cultura infermieristica
filosofìcamente intesa, significa appunto incarnare valori quali la
solidarietà e la socialità, l'aiuto ed il soddisfacimento dei bisogni propri,
del gruppo d'appartenenza, della collettività tutt'intera. Significa in ultima
analisi allearsi con l'umanità in sofferenza e proiettarsi in unavisione
del mondo portatrice di valori. D.
Loi sostiene che "la professione infermieristica è arte, disciplina,
scienza". Questo è pienamente sostenibile perché l'infermiere ha nella
sua cultura concetti quali l'uomo, l'ambiente, la salute che si integrano
perfettamente nel contesto delle dinamiche della vita. È chiaro allora che in
questo darsi la cultura infermieristica troverà come reazionario contraltare,
ancora una volta, il Potere inteso come imposizione della forza sulla debolezza,
dell'arrivismo sulla partecipazione, della frammentazione sul collettivo, dei
disvalori sui valori.
Come riuscire, in
conclusione, a non restare schiacciati, come non alimentare processi quali
l'adattamento, il burn out, l'arrivismo, l'appiattimento, il senso d'impotenza e
di perenne ed irreversibile sconfìtta?
Una risposta non c'è,
ce ne possono
essere tante, ma una che valga sempre non riesco a trovarla. Però invito ad
un'ultima riflessione che può, a mio avviso, essere una buona partenza per
cercare delle risposte, ossia provare a riflettere sui nessi che legano
il Sogno, l'autocoscienza e l'alternativa.
Sognare una professione ed
una vita che diano vere risposte ai bisogni dell'umanità e in essa ai nostri, aiuta a
creare processi di autocoscienza alti ed altri dove assumono
valore la solidarietà, la socialità, la sofferenza, la visione prospettiva
complessiva e collettivistica, l'alleanza tra esseri umani e la proiezione
finale nel mondo. Autocoscienza significa capire il valore umano e professionale
di ciascuno di noi, significa far nostra la vita, la nostra storia, significa
esistere per essere liberi.
Se i processi di autocoscienza si allargano a macchia d'olio, se contaminiamo e ci lasciamo contaminare dai valori allora credo davvero che ci possano essere tutte le premesse soggettive ed oggettive per dare un'alternativa alla vita professionale e, in generale, alla vita che oggi subiamo, che oggi "sopravviviamo". Una vita professionale e complessiva scelta, finalizzata alla libertà ed alla realizzazione di tutti e di ciascuno.
Rogers sosteneva che " una scienza
di esseri umani unitari che sia alla base del nursing richiede una nuova visione
del mondo (...) Per vedere il mondo da questo punto di vista si richiede
una nuova sintesi, un balzo in avanti creativo e nuovi
atteggiamenti di vita"
Concludo con una frase di Soren Kierkegaard
che sia di stimolo a tutti noi in questa battaglia: "Osare causa
ansietà. Non osare equivale a perdere se stessi"
Luca Littarru
Parole
chiave Matrismo, patriarcato, solidarietà,
socialità, valori, coscienza, professione Nota: Il lavoro è stato anche pubblicato su NEU, n°2/2000 |
Bibliografìa 1) Ann Marrier -
I teorici dell'infermieristica e le loro teorie.
Ambrosiana, Milano, 1986. 2) Sara Morace -
Origine donna. Prospettiva Edizioni. 4) Carla Longobardo - Per piacere, con amore.
Prospettiva edizioni. |
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