In viaggio a Peshawar

 di Lorenzo Marvelli

A bordo di un vecchio Toyota raggiungo, da Islamabad, l’infernale luogo che tutti si ostinano a chiamare ancora città.

Sono a Peshawar. Pakistan, frontiera con l’Afganistan.

In questo luogo dimenticato, un milione di profughi afgani di etnia Pashtun, spendono spiccioli di speranza convivendo con circa 2 milioni di residenti pakistani anch’essi di etnia Pashtun.

Il mio viaggio termina qui, mi è impossibile oltrepassare il confine: se questo è l’inferno, di là è guerra e le milizie talebane non rispettano i viaggiatori neanche quando questi provino a dichiararsi infermieri eretici in giro per il mondo, senza fede e senza certezze.  

Il senso del mio viaggio non è la ricerca della verità.

La verità è una religione. Ed io non ho fede né forza per nessuna jihad. E poi non riesco ad ipotizzare quella superiorità occidentale che qualcuno mi ha gridato all’orecchio qualche giorno fa. Non so cosa significhino razza, religione, civiltà.

Non m’interessa!

Dico invece di patire di un’ancestrale malattia che contagia alcuni uomini ammalandoli di insaziabile curiosità, di testardaggine ed ostinazione ed ancora di incertezza, volubilità, debolezza. Il risultato della malattia è un quadro che rende pieni di difetti, talvolta violenti nel gesto ma poi codardamente timorosi dello schiaffo o del semplice sguardo in cagnesco.  

Esercito pakistano al confine con l'Afghanistan. Foto Reuters

Una brutta infezione, non c’è dubbio!

Il senso del mio viaggio sta piuttosto in una incapacità di star fermo, di accettare la verità rivelata, la prova provata.

Sono a Peshawar per capire, stanco delle verosimili immagine televisive che, per dirla alla Carmelo Bene, informano i fatti e non sui fatti. Sono stanco della polvere delle macerie, delle ipotesi di conflitti chirurgici ed intelligenti, dell’economia che ristagna, del folle terrorista e del mullh Omar; sono stanco dei porporati inviti alla conciliazione, della preoccupazione di mia madre, dello spirito di vendetta del mio collega del 118.

E’ questa mia stanchezza ad avermi condotto sino a qui, così lontano da casa.

Ma ce l’ho una casa?

Diamine, che brutta infezione!

Qui la gente, soprattutto i profughi sistemati nei campi di periferia, vive senza denaro, magari come manodopera a basso costo per le mafie locali. L’oppio, il traffico d’armi. Solita povera minestra!

Nei campi a Peshawar non c’è nessun mercato, non ci sono merci, non c’è cibo, acqua, medicinali; l’unica attività “economica” che non sia droga o Kalashnikov, è la forza di sopravvivere, la capacità di avvistare in lontananza un convoglio umanitario carico di farina. Il più bravo è quello che corre più veloce per guadagnare la buona posizione, quello che ha scarpe buone e vista buona, quello che conserva un minimo di speranza da tradurre in scatto muscolare: una corsa, 400, 500 metri per un pezzettino di vita. Fino a domani, poi... jnshallah!

Già Dio...

Dio sembra aver dimenticato i campi di Peshawar e qualcuno mi dice: “Non solo questi, non solo questi...”

Già, le amnesie del cielo sembrano crescere di molto in questi ultimi tempi.

Eppure qui la gente continua a pregarlo, ad invocarlo incessantemente: “Non è per te che si combatte? Fa che io sia il primo della fila, fa che...”  

Dio è grande!  

Kabul, Ottobre 2001

Una radio in lingua Pashto diffonde continui notiziari filoamericani. Potenza americana!

Gli uomini più anziani fanno capannello, sono un po’ imbarazzati, questa è la frequenza sulla quale i Talebani trasmettono il Corano, com’è possibile...

Potenza americana!

Gli anziani in silenzio. Rassegnati agli scherzi delle onde invisibili. Non c’è più religione!

Molti ricordano quando a Kabul gli studenti di teologia allevati qui in Pakistan, bruciavano televisori e videocassette in piazza. Potenza del rogo! In ogni storia, in ogni paese.

Gli anziani in silenzio. Seduti sulle gambe.

Le donne prigioniere del burka stringono in braccio bambini malati. Osservo il reticolato di quella prigione e ne scorgo il nero degli occhi. Vengo malamente allontanato da una vecchia che grida ed agita al cielo mani guantate: “Mani che soffrono, mani che muoiono...”

Un pensiero al teatro. Anche qui. A Peshawar. Pakistan, linea di confine con l’Afganistan.

Ero un attore. Una volta. E viaggiavo nelle sabbiose terre della tragedia esistenziale: Peshawar è come quel palcoscenico che ho abitato con sofferenza e senso di morte insieme ai miei personaggi.

I più fortunati tra questa moltitudine infernale, hanno costruito dimore intrecciando rami e fango; gli ultimi arrivati fanno la fila lì fuori: aspettano che la morte si porti via i vecchi inquilini per procedere al naturale ricambio. Inconsapevoli avvoltoi rispettosi di questo strambo equocanone.

Ed arriva l’ora della preghiera: tutti rivolti verso la città sacra, tutti che chiamano e parlano a quel Santo Orecchio.

Dio ci sente!

Io guardo, non parlo, non saprei cosa dire, non ho mai conosciuto Dio.

Ho notizie di un attacco imminente dal cielo: aerei angloamericani saranno impegnati nelle prossime ore alla preparazione dell’incursione da terra di truppe speciali.

“Anche Dio è con noi”, hanno detto lontano di qui. Saluto con piacere questa democrazia celeste: ognuno ha il proprio santo in Paradiso!

Tra poco la “chirurgia” della guerra...

Pronti. Via!

A Peshawar la “chirurgia” miete ormai da giorni centinaia di vittime quotidiane alle quali è difficile dare sepoltura.

“Cataste di corpi marcescenti...” dicevo a teatro non molto tempo fa. Ora quell’odore è nell’aria, “Odore di peste, odore di morte...”

Domani lascerò Peshawar alle bombe intelligenti e con lei lascerò ogni velleità di capire, di individuare i colpevoli.

Non sono intelligente come le bombe!

Non mi resterà che riprendere il viaggio tra le macerie di questo mondo e della mia esistenza.

 

Torna all'Indice

Pagina pubblicata il 01/11/01